BIOGRAFIA
Manuel Cuña Novás nasce a Pontevedra nel 1924. Trascorre i primi anni della sua infanzia a Pontevedra fino al periodo repubblicano, momento in cui si trasferisce con la famiglia a Ciudad Real. Lì li sorprende la guerra civile.
Finita la guerra, mentre il padre, scampato alla repressione franchista viene inviato in esilio - dove vi resterà fino alla morte -, Manuel Cuña torna con la madre, alla quale le nuove autorità hanno sottratto la scuola e i fratelli al patio galiziano dell’infanzia, a Pontevedra.
Recisa l’adolescenza, sorge il poeta. Pietre miliari di questi anni sono il matrimonio con Josefina, la nascita dei suoi due figli e l’amicizia con il poeta Virgilio Nóvoa Gil, allontanato in seguito dalla pazzia.
Nel 1951 si reca in Francia, “quando Parigi puzzava ancora di morte” dove troverà voci lacerate e vibranti che non dimenticherà mai: Sartre, Camus, Edith Piaf, Paul Eluard,… e con loro gli accolti come maestri Holderling, Rilke, Rimbaud...
Rientrato a Pontevedra, nel 1952 pubblica il suo primo libro di poesie in lingua galiziana – Fabulario Novo – e, a partire da questo stesso anno, inizia a scrivere le sue poesie più belle in lingua spagnola che stamperà su fogli volanti distribuiti tra gli amici, allontanandosi volutamente dai circuiti editoriali poetici.
Sono anni duri e proliferi. La durezza viene dall’ambiente che lo circonda e dall’eccessivo lavoro nel quale si butta a capofitto per difendersi e difendere la sua famiglia. Il frutto lo rappresentano le poesie, i racconti e gli articoli in cui si riflette l’impronta indelebile del vivere quotidiano.
Con la fine della dittatura torna la speranza, anche se breve, di rendere possibili e fruttifere le parole - libertà, popolo, infanzia - che avevano nutrito la contenuta clandestinità; ma tornano quando “non hanno più la carica d’innocenza e verità che aveva aggiudicato loro il silenzio di tanti anni”.
Iscritto al Partito Socialista Operaio Spagnolo sin dai primi tempi, membro della Sinistra Socialista, viene eletto Senatore della provincia di Pontevedra nella prima legislatura, un incarico che, successivamente rinnovato, manterrà fino alla sua morte nel 1922.
AUTOBIOGRAFIA POETICA
IL POETA, LA POESIA E IL SUO TEMPO
Manuel Cuña Novás (Garachico, agosto 1990)
Ci troviamo nell’ultimo giorno della guerra civile.
Il mio amico Mozuma ed io avevamo assaltato una caserma vuota in cui avevano abbandonato borracce, cartucciere, cuscini e qualche fucile mauser che avevamo nascosto in una grotta a due o tre chilometri dalla città.
Erano le quattro del pomeriggio e le truppe nemiche avanzavano entrando da sud.
Caricammo i fucili e sparammo in aria. Questo fu il modo con cui mettemmo fine alla guerra. Con quegli spari, isolati e innocenti, seppellivamo la nostra belligerante adolescenza.
Ed ecco, senza accorgercene, due spari chiudevano una tappa della nostra sensibilità rispetto al mondo circostante. La guerra ci aveva fatto maturare prematuramente, facendo sparire un’infanzia proibita, la cui assenza avrebbe segnato i passi successivi di una vita stigmatizzata dal timore e dalla furia contenuta di un pensiero clandestino.
Da allora, le parole popolo, amore, fiducia, libertà, giustizia, repubblica o uguaglianza, avrebbero assunto altri significati: o avrebbero sottinteso persecuzioni o larvate speranze.
E quando le rincontriamo, come promesse, alla nostra veneranda età e in altre favorevoli circostanza, non hanno più quella carica di innocenza e verità che avevamo aggiudicato loro.
Per noi la parola libertà era il principio e il motore di qualsiasi trasformazione applicabile a tutte le varie sfumature dell’attività umana che ci rendeva partecipi dell’avventura, senza fine e già stroncata della nostra propria esistenza.
Quei due spari avevano dato il via al mio periplo poetico: d’ora in avanti la cosa più importante non sarebbe stata abituarsi, quanto piuttosto conservare come brace sotto la cenere i vincoli che avevano assistito al parto della nostra incipiente personalità.
Era una questione di resistenza.
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E fu la poesia, come una presa di coscienza, come un modo per rimanere nel mondo, sfidando, di fronte agli altri, il nostro allontanarci dal vivere quotidiano.
Tornarono a me, come tornano i morti con il pensiero dei vivi, indumenti abbandonati, valori caduti, parole in disuso fatte con la materia del pane e del vino, della luce, dell’amore e della speranza.
Bisognò sperare per continuare in piedi e aspettare invano, resistendo all’assedio di altri drammatici eventi che laceravano i nostri generosi criteri poetici sul divenire umano della stirpe.
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E andò in Francia quando Parigi puzzava ancora di morte; quando Edith Piaf cantava i suoi poemi vibranti e lacerati; quando Picasso faceva volare la pace della sua colomba; quando Sartre portava la ragione sociale dell’esistenza all’anarchia; quando il mito di Sisifo era il nostro convincimento; quando Paul Eluard incideva la parola libertà sui banchi di scuola; quando Francois Sagan svelava il comportamento occulto, la nuova morale della sua generazione; quando la OAS torturava in Algeria e gli esiliati spagnoli avevano perso la speranza del rientro.
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Preceduti come un annuncio dalle bombe di Hiroshima e Nagasaky, i campi di sterminio e l’esodo della seconda guerra mondiale che, nonostante l’orrore, nascondeva una promessa di speranza, con gli effetti della guerra putrefatta e fetida del Vietnam, scatenarono molti mali psicologici che, nel nostro inconscio, ci rincorrono ancora; o, per lo meno, è lì dove si sono dati appuntamento. La vita fisica come unico valore di scambio, la robotizzazione manipolatrice dell’uomo contro l’uomo, la distruzione sistematica della fertilità della terra, il rifiuto della vita psichica come necessità scomoda e l’indifferenza di fronte alla morte.
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Potevamo fidarci solo di chi, non più impegnato nel tempo con i fatti, avrebbe avuto la capacità di rinnovare una relazione libera con noi stessi.
In questo modo Holderling, Rainer Maria Rilke e Artur Rimbaud furono i nostri maestri. Avevamo scelto la razionale ineffabilità, il sentimento orfico del mondo, allontanandoci da una società ostile alla morale creatrice e partendo dall’idea per cui il concetto fondamentale era l’esistenza e non la natura dell’uomo.
E così, raccogliendo come le api la cera del nostro alveare, allontanavamo dal nostro vivere quotidiano gli effetti di una imposta e degenerata realtà.
E tutto questo ci obbligava a concepire la poesia come una via di ritorno all’adolescenza; non tanto come enigma vissuto, quanto piuttosto come rivelazione di quanto si nasconde nell’essere umano; e non tanto nella sua concezione sociale, sempre contingente, quanto piuttosto nella sua condizione esistenziale, sempre in divenire.
In seguito, sarebbero arrivati altri poeti a rivelarlo; si sarebbero incorporate altre influenze man mano che si intensificava il nostro impegno personale.
E così passarono gli anni, con la consapevolezza che questo tempo stava lasciando ferite, come impronte indelebili nello sviluppo del nostro proprio vivere quotidiano.
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Il mio stato d’animo, al principio di quella transizione sociale che, per noi, lasciava presagire venti di prigionia, si è voluto riflettere attraverso un lavoro retorico, concentrato nel martirio di García Lorca, utilizzando accenti e parole prese in prestito da Cernuda, da León Felipe, da Alberti, da Neruda, dagli uomini della Spagna peregrina, per verificare se restavano ancora tizzoni del sentimento con cui avevamo vissuto. Non nascondo la mia delusione.
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A mala pena ho avuto una relazione dirette con i poeti del mio tempo. Solo ad Alfonso Costafreda e Carlos Barral che appartenevano, fra gli altri, alla così detta generazione perduta, mi univa una profonda amicizia.
Una generazione che, al suo passare, aveva raccolto le macerie di ignorate libertà, erede del vento lasciato dalle pallottole nella loro traiettoria, rincorsa dalla calamita delle trincee disabitate.
Una generazione che non saprà mai quale è stato il suo peccato ma che ha scontato il suo castigo; una generazione che fu brace di alti fuochi che nessuno ha potuto spegnere; che è entrata nella vita - unica sua certezza – attraverso il lucernario di una speranza perduta.
Deviata nell’adolescenza del proprio divenire, come il treno che sbaglia binario ad un incrocio, imparò il mestiere di essere uomo ogni giorno, abitando il divenire di un ieri giá morto.
Permettetemi questo ricordo: Alfonso Costafreda bruciò in esilio di ardente solitudine. E Carlos Barral si arrese alla vita dinanzi alla pace dorata dell’ultima birra.
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LA POESIA INUTILE.
Ed è vero che la poesia non risolve nulla di effettivo, non dissolve i dubbi, non trasforma la realtà, non fabbrica oggetti e non è serva di credenze.
E la missione inutile del poeta, senza altri impegni che se stesso è dare senso e trascendenza alla vita dell’uomo e all’orbita del mondo, dare un nome alle cose e transitare attraverso le zone che non si sono ancora rivelate all’essere umano.
E poiché questa rivelazione è condizionata dal tempo in cui ogni poeta vive, la generazione successiva deve sempre compiere la missione di continuare a rivelare quella parte occulta ed espressiva del nostro essere, nonostante le necessità generate dalla conoscenza e tenendo sempre in considerazione che la conoscenza e le esperienze sono per il poeta come le quinte nel teatro: qualcosa che, pur essendo complementare alla creazione dell’opera è del tutto esterna e non dipende da lei.