Mare d’altra luce
Agli equipaggi del “Zorro” e del “Zorrita”,
con cui ho condiviso il pane e il vino,
l’angustia e la libertà nel cammino
che porta dalla terra al Mare del Sole.
A Cristóbal Portabales, Armatore
perché, infuriando il temporale, mi disse:
“Un uomo, sulla terra come nel mare
è messo per morire”.
Ho vissuto sulla terra i percorsi del mare,
nascevano col porto la nave e il suo destino;
tutto era sogno allora o tutto era o niente,
e passai, senza volerlo, dalla polvere all’onda.
E solcaron le mie vene profondi leviatani,
scie incendiando timoniere spume,
attraversando il mio sangue goccia a goccia innevato
con la pallida aurora che ieri forse avrei voluto.
Non basta terra all’uomo, cammino e sepoltura,
non basta essere niente ed esser per morire,
essere clamore di campane sopra il lutto dell’aria,
reiterare la materia funebre dell’onda.
Ho lasciato sulla spiaggia un’impronta, un silenzio,
un addio per il tempo interamente usato:
copra la tua sabbia la data senza memoria
per un certo domani che mai dovrà tornare.
Verso il mare dirigo la mia dura amarezza
come barca persa senza timone né consolazione,
tra rosse tempeste e azzurrate quieti
verso albori di ali ed acque libere.
Voglio vivere la tua onda battendosi sulla mia fronte
quando, mare di morte o mare di speranza,
le tue corolle uguali crescendo col mio sangue
si aprono al silenzio delle costellazioni.
E nascendo, le Isole, sognate solitudini,
ansia pura di caule con recenti scame
che separano l’acqua amorosa che le copre
verso la luce, l’onda, il sogno del destino.
Giovani materni, rifugi di speranza,
vegliatrici angeliche di mortali cure
solo nel vostro offrire più in là del cielo
saremo ascendendo tenebra ed onda.
Piangono il fiore, all’uccello, la luna e il suo belato
all’agnello nella notte tra le spine innevate.
Nessuno piange l’isola, quel fiore solitario
che tremò per affondare alla luce ed al mistero.
E poi mare aperto risuona nella chiglia,
e vengono con l'onda precoci libertà,
e la luce sa di pesci e petali marini,
quando iniziano i venti la gravità dell‘albero.
Vento del mare che accende ombre scoscese
lacerando il battito vibrante delle sartie
e un dolore alle cervella di vele e di naufragi,
e un triste legno che galleggia per nessuno.
Venti del mare portatemi su spiagge silenziose,
dove termina l’onda i suoi alti sviluppi
dove abita l’oblio, dove una morte voglia,
tavola di che vascello, forse niente, lasciatemi.
O di te naufragato, con gli occhi aperti
che riflettono i pesci del timore persuaso
galleggio nel verde fervore delle maree:
ed è vana la speranza se c’è solo una via certa.
Come l’albero che solca allegro di burrasche
le tenebre ululando a lungo sulla prua
vibro con i gabbiani che vengono dal cielo
come gocce di luna, si appoggiano in coperta.
Chiuso il boccaporto. Ancora amor di terra.
Galleggia insieme all'albero e al terrore dell’abisso,
quando scappano i topi al fondo dell’orrore
con l’onda che avanza fuggitiva e remota.
Brillanti reti dormono il sale delle maree
ed i pesci conservano le scame del sogno
piovono mari persi nella notte e l’anima
e si sente nei denti la sete degli affogati.
Né una croce, né una vela; che il niente ti salvi:
il mare non inganna la solitudine dell’uomo
ed i pesci già dicono ciò che dissero gli uccelli
quanto piange in segreto la canzon dell’affogato.
Sto toccando il fondo delle barche marcite
sotto un lento diluvio di anni e di sabbie
e una nube di pesci circondan le fiancate
ed in seguito una spina di silenzio gigante.
Rotta nave di ieri, malata nave sola:
andrà il mare con te a marcire le sue onde?
tornerai al mistero che invadeva la tua scia
con le cure più pure, con identiche ansie?
Ti porterai via l’onda fusa col tuo pianto?
È difficile la vita dove inizia il silenzio?
Di verde o mare azzurro, andrai tu con la morte?
girando e succedendo la distruzione amara?
Che dica il marinaio la canzone del destino,
il salmo fervoroso dei tuoi profondi abissi.
Così vado alla vita, la mano non domanda:
costruisce in silenzio la solitudine dell’albero.
Madrigale adolescente
Giusto e fiducioso tu, per il tuo sogno e per la tua anima.
Ti legarono ingiustamente la tua forte vocazione d’ala.
Il mondo non ha le porte e nel mondo era la tua casa.
Carcere fecero di te, e del mondo frutto amaro.
La sete era nella terra, e per la sete l’acqua.
Fecero dell’acqua sete, e della sete goccia falsa.
Azione? Non ancora, quando qualsiasi azione confonde
Per essere ribelle a te, con un silenzio ti basta.
Piangi, al fine, piangi. La terra
Rinasce pura nelle tue lacrime.
Lazzaro fui ....
Al Dr. José Reboredo Casas,
che mi salvò da una morte
Lazzaro fui: Oscura fiamma sommersa
Portata dalla tua mano alla speranza,
miracolo di un destino che si scaglia
a prolungare il volo della sua vita.
Lazzaro sono: le mie sorti ripetute,
Tra ombra e sfavillio, non riescono ormai
A rinnovare il pane del loro cangiamento
Per dare alla mia morte vera vita.
Sarò Lazzaro in fine, stanco e triste,
con una doppia morte in cui si stronca
l’ angoscia accecante del deserto.
E senza riuscir a vivere ciò che esiste
Solo il nulla sarò per essere mai
Un vivere che conclude nell’esser morto.
Gioventú, ala ardente ...
Gioventú, ala ardente, pietra che canta,
raggio augurale con longitudine d’urgenza,
disormeggia le tue mani che nacquero così libere
avviandoti al volo con naturalezza d’aquila.
Come un alba novizia calamiti i coltelli,
la luce disabitata dei campi di nessuno
ove cade, mansamente, con solitudine d’ala
il tuo corpo lacerato dalle zone dell’odio.
E tuttavia
come un’offerta. Tu sei pura materia
Lasciali che ti bevano.